In morte di Bafode, ragazzo dalla pelle nera

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di Marco Marano

La storia di uno dei giovani africani morti a causa dello schiavismo nelle campagne del foggiano è la chiave di lettura di un paese il cui modello democratico di riferimento è drasticamente in crisi.

Bologna – In quel pomeriggio assolato, nelle campagne del foggiano, mentre tornava insieme ai suoi compagni di fatica nei campi, in quattordici stipati come animali, in quel furgoncino che quando si rompeva gli stessi caporali, anch’essi africani, lo sistemavano con il fil di ferro, Badofe è morto da schiavo.

Morire da schiavo

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Schiavo della terra. Schiavo dei caporali. Schiavo di un paese dove ampi pezzi di popolazione si sono lasciati convincere che in Italia prima vengono gli italiani. Schiavo di alcuni politici da quattro soldi, che ritengono non corretto associare il disastro di Marcinelle, dove morirono centinaia di italiani emigrati per lavorare in miniera, con la strage dei braccianti… Questi dicono che associare i due eventi sarebbe offendere gli italiani. Sono gli stessi che non rappresentano certo l’Italia, poiché questo è un paese i cui valori si rifanno alla Resistenza, la stessa che ha sconfitto i padri di questi “polituccoli” affamati di potere…

E ancora, schiavo del cinismo dei benpensanti, che tanto girano lo sguardo dall’altra parte… Schiavo delle aziende agricole mafiose che gestiscono lo sfruttamento, tramite “aste” truccate… Schiavo delle grandi imprese che producono pomodori pelati in scatola, con i loro spot edulcorati, anche loro, non tengono nessun ritegno, a girarsi dall’altra parte… Schiavo di una comunità convinta che il problema siano proprio loro, gli schiavi, e non la loro condizione.

L’autonomia come una chimera

38756548_989723347897041_6502396489745039360_nBafode aveva 22 anni, era stato un richiedente asilo, e aveva ricevuto il riconoscimento della protezione umanitaria. Veniva dalla Guinea Conakry: era in Italia dal 2016. Aveva fatto tutto il classico viaggio nel mar Mediterraneo dalla Libia. Poi, dalla Sicilia a Bologna, per entrare nei programmi Sprar di Riccione e Rimini. Ma una volta finito il programma d’accoglienza, si è trovato con le famose mosche in mano. Quella autonomia sperata, tanto agognata, per la costruzione di una vita dignitosa e in sicurezza, era stata solo una chimera…

E’ difficile individuare una percentuale precisa, ma la sua è la storia della maggior parte dei rifugiati in Italia. Basti pensare che nella città di Bologna il 60 per cento circa delle richieste di accoglienza notturna a bassa soglia sono proprio quelle dei rifugiati lasciati a se stessi…

Una vita comunitaria

 

Ma la storia di Badofe ha un risvolto. Una volta sul territorio viene intercettato dalla rete solidale Casa Madiba Network. Una rete di attivisti che hanno creato a Rimini una filiera di gestione dell’accoglienza parallela e alternativa a quella istituzionale, anzi possiamo dire che di quella istituzionale ne corregge i limiti. Questo perché il loro obiettivo è di garantire una vita degna e in autonomia. Una realtà che in verità rappresenta qualcosa in più: la dimostrazione che un modello sociale alternativo a quello neoliberista è possibile

Una associazione, Rumori Sinistri, fa da contraltare a Casa Don Andrea Gallo, luogo in cui vivono italiani insieme a stranieri, autogestendosi lo spazio. Una filiera dicevamo: dall’abitare degno alla somministrazione di alimenti sostenibili, dalla pizzeria sociale al mercato equo solidale, I custodi del cibo. E ancora: dalla raccolta di vestiari ai progetti formazione lavorativa.

Ma nella rete di Casa Madiba Network c’è pure una polisportivaAutside, nella cui squadra di calcio militava il giovane Badofe. Anzi, una volta entrato nella rete, dopo le esperienze fini a se stesse dei programmi di accoglienza istituzionali, proprio il calcio è stata la molla per Badofe che l’ha portato dentro l’esperienza mutualistica di Casa Don Andrea Gallo…

Riconfigurare il futuro

38526528_2060875493973226_7743534329099190272_nIl calcio era la sua passione fin da bambino, niente di meglio quindi che partecipare al campionato di calcio organizzato dalla Uisp, per giunta in una squadra antirazzista. Ma a parte questo ce la metteva tutta Bafode per riuscire a farcela: studiava, s’impegnava assiduamente nei progetti della rete, per riuscire a riconfigurare un destino cattivo già da quando diventò orfano…

L’unico problema di Bafode, come per tutti i giovani rifugiati in Italia, era l’inserimento nel mercato del lavoro: doveva necessariamente mandare dei soldi alla sorella, rimasta senza di lui in Africa. Era quella la sua angoscia più grande. E non volle proprio sentire ragioni quando comunicò ai ragazzi di Casa Don Andrea Gallo la volontà di accettare il rischio che l’aspettava… Non volle proprio sentire ragione quando gli attivisti di Casa Madiba Network gli consigliarono di non andare: è pericoloso, ti riducono in schiavitù… Beh, certo, non è che a Rimini le condizioni umane di lavoro siano tanto diverse per questi ragazzi, ma almeno non rischiano la vita, come hanno segnalato da Casa Madiba Network.

Quei morti che non erano bianchi

Badofe è quindi andato senza più tornare. Morto insieme ad altri 15 ragazzi nel giro di poche ore. Mentre i telegiornali italiani erano impegnati a raccontare il disastro di Bologna, quella decina di ragazzi morti rimaneva ai margini della cronaca, ribaltando la gerarchia delle notizie e la pratica giornalistica: dove ci sono tanti morti è la prima notizia… Ma Badofe e gli altri non erano italiani e non avevano la pelle bianca…

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