Black Lives Matter – il razzismo non fa respirare anche in Italia. Mobilitiamoci per la Sanatoria 2020

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Black lives matter – il razzismo non fa respirare

In questi giorni negli Stati Uniti migliaia di persone sono scese in piazza in seguito all’ennesimo crimine prodotto dalla violenza e dal razzismo istituzionale. Le immagini dei cortei in tutta la nazione, degli espropri, degli scontri, dei flash mob, della solidarietà attiva hanno fatto il giro del mondo. La morte di George Floyd ha dato il via ad una rabbia degna che ha scatenato le rivolte e che ha travolto l’intera nazione sfociando in una lotta di classe. Le persone che sono scese in piazza e che stanno continuando a manifestare rivendicano il diritto di respirare, diritto che troppo spesso è stato schiacciato.

Gli Stati Uniti, infatti, che si autoproclamano «terra di libertà» sono in realtà l’incarnazione dell’economia capitalista che si è forgiata sul saccheggio e sulla riduzione in schiavitù di milioni di persone e che perpetra da più di 400 anni sopraffazione, oppressione e violenza sulle persone considerate “diverse” dagli stereotipi delle classi dominanti.
Gli omicidi delle persone afroamericane, le violenze di genere, i pestaggi delle soggettività LGBTQIA+, la violenza sulle persone povere sono solo la punta dell’iceberg di un sistema basato sullo sfruttamento e sulla disuguaglianza. La crisi sanitaria e sociale scaturita dal Covid19 ha scoperchiato e reso più palesi le contraddizioni di questo sistema, aggravando ulteriormente le condizioni delle classi sociali più povere: le disuguaglianze si sono amplificate; la disoccupazione è cresciuta enormemente; il sistema sanitario già inaccessibile ha mostrato tutte le sue falle; la povertà si è espansa anche alla cosiddetta classe media e la morsa sui diritti si è fatta ancora più stringente.

Ma l’America e i suoi stati non sono gli unici sistemi a perpetrare violenza razzista, sessista e xenofoba. Anche in Italia e in Europa si registrano tutti i giorni episodi di sistematico razzismo istituzionale e sociale, con continue violenze da parte della polizia.
«I can’t breathe» è certamente anche il grido di Abba Abdul Guiebre, Jerry Maslo, Idy Diene, Soumayla Sacko, Emmanuel Chidi Namdi, Becky Moses, Jennifer Otioto, Gideon Azeke, Mahamadou Toure, Wilson Kofi,Omagbon, Omar Fadera, assassinati qui, in Italia.
«I can’t breathe» è il grido di chi lascia la propria casa in un continente depredato e corrotto, dove si muore di fame e di conflitti per un pezzo di terra o un capo di bestiame, dove le risorse sono espropriate e depauperate dalle potenze occidentale e il cambiamento climatico rende la sopravvivenza sempre più difficile, dove i governi indipendenti hanno fedelmente riprodotto il sistema di oppressione e privazione dei loro colonizzatori.
«I can’t breathe» è il grido di chi in Libia diventa una non-persona, costretta a vivere rinchiusa con altre centinaia per mesi per non essere uccisa o messa in carcere. È il grido di chi ha la sfortuna di finire nel carcere libico dove subirà le peggiori sevizie e verrà spogliato e spogliata di qualsiasi dignità.
«I can’t breathe» è il grido delle persone che muoiono nel Mediterraneo, nell’indifferenza generale; è il grido delle persone che preferiscono morire lì annegate piuttosto che tornare in Libia, perché la morte spaventa di meno di quello che si subisce in Libia.
«I can’t breathe» è il grido di chi vive appeso al filo del permesso di soggiorno, disposto a tutto per non perderlo. È il grido di chi per questo subisce ogni forma di ricatto, costretto e costretta ad accettare sfruttamento e maltrattamenti pur di avere un contratto. È il grido dell’esercito di braccianti invisibili che lavorano sotto agli insulti del padrone, per 12 o più ore al giorno senza giorno libero, senza diritti, per una paga misera. È il grido di chi ci è morto in questo sistema di sfruttamento, come Bafode, Ebere e Romanus.
«I can’t breathe» è il grido di chi non riesce a trovare una casa perché «non si affitta alle persone di colore».
«I can’t breathe» è il grido di chi subisce pestaggi e stupri in mezzo alla strada perché donna e/o soggettività LGBTQIA+. «I can’t breathe» è il grido di chi deve fare file di ore per avere la possibilità di fare una doccia o di avere un pasto caldo.
È il grido di chi, anche se nato e cresciuto in Italia, non può avere la cittadinanza a causa del proprio aspetto non occidentale.
È il grido di chi subisce un razzismo culturale e istituzionale che è sempre più sdoganato.
È il grido di chi soffoca per le polveri sottili prodotte da un sistema economico dove l’imperativo è la crescita della produzione a tutti i costi, a discapito delle vite umane e dell’ambiente, la cui crisi è ormai irreversibile.

E allora, visto che questo sistema non ci fa respirare, anche a Rimini vogliamo gridare #Blacklivesmatter, che significa fermare la violenza istituzionale, significa smettere con l’afro-fobia, significa smettere di identificare il corpo nero come corpo straniero, significa rinunciare ai nostri privilegi, significa permettere alle donne e a tutte le soggettività di autodeterminarsi, significa garantire una casa a tutt* e significa continuare a lottare per i diritti di tutt* !

Per queste ragioni ci troviamo il 16 di Giugno alle ore 11:30 davanti alla Prefettura di Rimini per legare le battaglie del movimento BLM con quelle contro l’ennesima sanatoria discriminatoria e truffa.

Il 6 Agosto 2018, sul furgone che si dirigeva nei campi di pomodori in cui sono morti Bafode, Ebere e Romanus e altri nove uomini, c’era anche Alagie Saho che, insieme a Khadim Khoule, è l’unico sopravvissuto di quella strage. Queste sono le sue parole. Anche questa è una delle migliaia di violenze portate avanti da questo sistema razzista.

«Non mi ricordo niente dell’incidente, forse sono svenuto. Mi ricordo che quando mi sono svegliato, ero sul ciglio della strada. Ho aperto gli occhi e ho sentito che stavano contando i morti. Ho sentito dire “Sei morti” e così ho capito che erano morte sei persone. Solo in ospedale ho saputo che tutti erano morti, tranne me e Khadim. Ci siamo salvati perché eravamo gli ultimi.
Sono stato 14 giorni in ospedale. Il mio corpo è guarito dopo molti mesi, ma quando dormo la notte ancora mi sveglio con i ricordi di quel giorno.
Erano i miei fratelli. Erano i miei amici. Mangiavamo insieme, dormivamo insieme, la domenica, quando non andavamo al lavoro, stavamo seduti insieme a bere l’ataya. Io non posso dimenticare. Non voglio».

Se ci indigniamo di fronte a ciò che accade negli Stati Uniti non possiamo voltarci dall’altra parte di fronte a ciò che tutti i giorni accade di fronte ai nostri occhi qui, in Italia.

Black lives matter, everywhere and always.

CASA MADIBA NETWORK ❤️✊🏿

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